“Blues per sedici Ballata della città dolente”, S. Benni

Da leggere (preferibilmente) ascoltando John Lee Hooker

blues per sediciSe nei campi di cotone del Mississippi le misure del canto erano dodici, cucite su tre  accordi, nel “Blues per sedici” di Stefano Benni sono sedici. Ognuno degli otto personaggi canta due volte: in una sorta di jam session le vite si sospendono trovando il tempo, forse per la prima e ultima volta, di prendersi per mano, stringersi. La lapidaria sentenza che esce delle loro labbra è vicina a quella dell’oltreatlantico Edgar Lee Masters che tra le tombe a Spoon River ci raccontava che la vita, alla fine delle danze, non si misura nei conti in banca ma nel numero delle stelle contate, nella durata dei baci, nella lunghezza dei sogni.
Il blues di Benni si divide in due parti: un primo movimento, più leggero, simile a un preludio in cui l’Indovino cieco, il Padre, la Madre, il Figlio, Lisa, la Città, il Killer e il Teschio si presentano; e un secondo movimento in cui la chitarra dell’autore aumenta la distorsione, grida di più, forse perché sa di non aver nulla da perdere: “vorrei morire giovane ma prima dovrei diventarlo così aspetto l’ultimo grido e sarà mio, non del mondo”. I primi otto “accordi” sono presentazioni, strette di mano internazionali tra chi legge e si lascia leggere, e viceversa, forse un accenno di abbracci, ma poco più. Gli strumenti si accordano, uno per volta senza che l’occhio sosti troppo su uno in particolare: sembra che ognuno porti un nome anonimo, privo di maiuscole o firme originali. Le parole scorrono leggere, potenti sì alcuni fraseggi, ma sono echi lontani, si confondono subito con il traffico davanti dietro sopra e sotto.
Poi arriva pagina ventinove. E la seguente bianca. E quella dopo ancora porta solo una scritta maiuscola in testa: SECONDO MOVIMENTO.
Il volume si alza, i ruoli si invertono: non siamo più noi ad analizzare (come di consueto) chi ci sta di fronte, ma accade “magicamente” il contrario. L’Indovino che era cieco nel primo movimento ora vede più degli altri, più in là del confine della città che gli ha insegnato a distinguere le voci che chiamano per picchiare da quelle che chiamano per cantare; ha scoperto che Città non è un demone da sconfiggere dentro una bottiglia; che il Figlio si è innamorato e ora le ferite si sentono davvero perché torna a casa sempre con le scarpe sporche di vino perché c’è un bar che gli piace tanto, ma nessuno segue la sua ombra sotto i lampioni mentre canticchia il suo Pinball Blues; che Lisa anche se si sente sola vede tante persone sole come lei intorno, ed è come essere in due, e canta e tra le mille note che gli escono dal cervello c’è anche un nome familiare; che il Teschio, che fa paura a tutti anche se tiene un paio di rose nella tasca del cappotto, vorrebbe parlare con Dio, ricevere per un po’ di denaro un grammo di paura; che il Killer vuole davvero ammazzare Lisa, la Madre e tutti gli altri, ma finisce per piangere anche lui e si lascia sorprendere da un volto che lo fa rallentare: il suo volto; ha scoperto che la Madre rincorre ancora, senza fiato ormai, una giovinezza lanciata dalla finestra che le fa scompigliare i capelli; che il Padre, in fin dei conti, non si era reso conto del potere che aveva, e ormai la sua parte è finita: un inchino ancora, un inchino soltanto e poi tutto sarà chiuso dal sipario.
L’ultima nota che si può aggiungere alle parole del blues non è che una domanda: ma chi stava suonando?

Eugenio Cereser

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